Non concordo, Fiorello. semmai è l'opposto che va fatto. Svuotare progressivamente il monolito comunale centrale e creare municipalità di zona, accessibili ai cittadini e anche agli imprenditori.
Mi spiego.
Ieri ho avuto una lunga conversazione con un imprenditore bergamasco e con un architetto milanese. Spero di scriverne su Nòva. Il punto verteva sulle strade del futuro. Come beni pubblici ad alta produttività, e anche redditività.
Una strada è solo una strada, direte. Sbagliato. Una strada è una infrastruttura viva, un lungo pezzo lineare di territorio, un sistema attrezzato sotto (canali di scolo, strati di fondo vari), ai lati (consolidamenti di tratti montani, paratie antirumore...), una strada è anche gallerie, aree di sosta e di servizio, rifornimenti, autogrill, svincoli, semafori, cartelli. Una strada richiede investimenti e lavoro continuo, può richiedere estensioni, raddoppi, modifiche di tracciato...
Bene, questo lungo pezzo lineare di territorio, ai lati spesso inutilizzato può accogliere pensiline allo stesso tempo antirumore e fotovoltaiche (nei punti giusti). E, in altri punti giusti, il suo sistema idrico (spesso rudimentale) di drenaggio delle sue acque sporche (il passaggio delle auto genera residui di gomma e micropolveri di ferodo, per esempio) può sfruttare differenze di temperatura per sistemi a pompa di calore geotermici. In alcuni tratti la strada può essere sede e collettore anche di energia eolica. Risultato: un lungo "real estate" pubblico lineare per produrre energia rinnovabile, con investimenti tutto sommato limitati (i cavi elettrici già corrono lungo le strade, e spesso anche le fibre ottiche).
Supponiamo che una strada, anche urbana, con investimenti aggiuntivi del 20%, generi ricavi energetici, dopo 6 anni, superiori a quanto investito. Il bene pubblico resta tale, ma un business plan ben calibrato su questa strada ci dice che:
1) Un imprenditore che sa gestirla correttamente ci guadagna e può investire in altre strade pubbliche italiane;
2) Una pubblica amministrazione, partner dell'imprenditore, ci guadagna anch'essa, si ripaga o vi risparmia spese di manutenzione e l'opera pubblica cessa di essere un puro costo per lei diventando un investimento positivo per il suo bilancio;
3) La messa a "coltura" dell'enorme patrimonio di strade in Italia, urbane e non, può risparmiare al territorio agricolo, a parità di energia rinnovabile prodotta, l'invasione da parte di grandi campi fotovoltaici concepiti per un facile ritorno sugli incentivi del conto energia
4) Lo stesso identico concetto lo si può applicare ad altri beni pubblici. In pratica a tutti gli edifici pubblici che, come sostiene Rifkin, davvero possono divenire produttori, parziali o persino a sovrappiù di energia. Il bene pubblico da costo diventa investimento.
Le implicazioni di questi quattro punti sono interessanti. Innazitutto ci dicono che l'attuale strategia di privatizzazioni dei beni pubblici è sbagliata. Non solo perchè un bene essenziale come l'acqua viene fatto pagare ai cittadini a costi superiori. Ma soprattutto perchè il futuro sta in una partnership a valore aggiunto tra Pubbliche amministrazioni e forze imprenditoriali, in cui nelle seconde non vanno viste solo gli impreditori privati, ma anche cooperative e associazioni operative sul territorio.
La gara per un'opera pubblica cessa di essere l'attuale corsa al massimo ribasso (coperta poi da sovraccosti in corso d'opera, spesso tangenti e corruzione) ma la scelta razionale, e possibilmente anche partecipata, tra più business plan diversamente configurati, ma con tassi di redditività, anche per le comunità tangibili.
Mi spiego. Supponiamo che l'azienda A proponga al comune C un progetto per una strada, un gruppo di edifici, tale per cui si ottiene, in 6 anni, il rendimento netto del 30% reale (non finanziario) sugli investimenti. Il progetto A richiede qualche sacrificio ai cittadini ma in compenso genera fondi, chessò, per costruire una nuova scuola o istituto tecnico. Il progetto B, presentato da un'altra azienda, non richiede quei sacrifici ma rende di meno, il 10%. La comunità viene chiamata a scegliere, e valuta i due business plan. Sceglie mettiamo A e la stessa comunità vigila perchè gli obbiettivi vengano raggiunti e la scuola "a costo zero" effettivamente costruita e messa in funzione.
Il bene pubblico redditivo, anche per le comunità, diviene terreno non solo di riequilibrio energetico e ambientale, ma anche di investimento su altri beni pubblici. Proseguendo nell'esempio, in una terza fase la comunità locale può proporsi di generare nuove rirose per avviare, nell'istituto tecnico, un laboratorio di ricerca, innovazione industriale e un incubatore per nuove imprese avviate dagli studenti locali.
Credo sia sufficiente a dare un senso concreto alle tesi di Rifkin. L'opera pubblica, se privatizzata sic et simpliciter a un privato che poi ne diviene monopolista, si traduce quasi sempre in una perdita secca per la comunità (valga il caso Autostrade), se invece messa a valore su una partnership intelligente, innovativa e partecipata potrebbe avere un esito completamente opposto. Anche in termini di nuovo lavoro, di beni pubblici di qualità più alta (non al puro minimo costo - illusorio), di minor corruzione, di reinvestimento in ulteriori beni pubblici.
In due parole: di sviluppo sostenibile.
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Questo implica anche che i grandi comuni metropolitani, tutti politici e lontani dai cittadini e dal territorio, sono ormai obsoleti, vanno suddivisi (come ha cominciato a fare Roma con i suoi Municipii) in entà gestibili, accessibili e partecipabili nelle scelte informate del prossimo futuro. Pena la stagnazione, la corruzione e l'immobilismo.
La chiave? Riprogettare l'amministrazione delle nostre metropoli (ma non solo) a dimensione di comunità attivabili. La vera nuova pietra filosofale di un assetto efficace, di un federalismo non punitivo, di una sussidiarietà calibrata sull'uscita dalla crisi.