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Inviato da avatar Eugenio Galli il 05-07-2010 alle 00:26 Leggi/Nascondi

Il Manifesto per Milano ha fra gli altri un grande merito: quello di avere innalzato il livello di discussione di questa città sul suo presente e sul suo futuro, provocando un dibattito ampio, autorevole, competente ed appassionato.

Questo pone noi cittadini di fronte ad un bivio tra partecipazione e indifferenza, rafforzando un desiderio di appartenenza alla comunità, una voglia di bellezza e di collettività che, se richiama partecipazione vera e orgoglio non vacuo, non può limitarsi a visioni appiattite su stereotipi. Ma che, se non trova risposte adeguate, rischia di cedere il passo al pessimismo e all’individualismo esasperato.

In questo senso diventa anche chiaro il tema della “responsabilità politica”, dove il potere è aggettivo e non sostantivo, vale a dire: è un mezzo per realizzare il bene della comunità e non un fine in sé.

Parliamo della desiderabilità della città e del vivere urbano. E chiediamoci: che città vogliamo? Che città ci piace contribuire a realizzare per noi, per i nostri figli, per le generazioni a venire? In termini di ambiente, mobilità, socialità, desideriamo una città per le auto o per le persone?

Nella città che vorremmo, che ruolo dovrebbe avere la ciclabilità? Un semplice accessorio o invece una risorsa fondamentale?  

Non sembri una domanda oziosa: la bici è un paradigma della mobilità sostenibile. E il modo in cui si declina dice molto di quale sia la visione che la precede e l’accompagna.

Se guardiamo ai temi della mobilità sostenibile, e in particolare della ciclabilità, fino a questo momento si può dire che la bici è stata trattata politicamente nel modo più sbagliato: cioè come argomento da salotto radical-chic o da campagna elettorale. Promesse, annunci, buone intenzioni. Molta autoreferenzialità. Poche realizzazioni, prodotte con poca o nessuna convinzione, e a volte anche con scarsissima competenza.

Si può dire che la bici è sempre arrivata… sui titoli di coda.

In che senso?

Qualche anno fa ero stato invitato con altri a partecipare a una trasmissione Rai in cui si discuteva di traffico, inquinamento, ambiente. Dovevo rappresentare la voce dei ciclisti. Ma ho atteso, silenzioso e paziente, che mi venisse data la parola sino alla fine, quando il conduttore, mentre già scorrevano i titoli di coda, mi chiedeva se la bici potesse essere d’aiuto, invitandomi nel contempo alla brevità. Sicché mi ero a quel punto limitato a evidenziare che la considerazione della bici era emblematicamente rappresentata dalla sua posizione in scaletta: dopo tutto il resto. Il conduttore ha colto il messaggio e non si è risentito. Anche perché la mia non era una considerazione polemica, ma una mera constatazione ben rappresentata da quella e da mille altre discussioni simili.

Ecco, la bici, a Milano, arriva sui titoli di coda.

E allora cosa serve per dare una svolta?
I cambiamenti non avvengono per opera del caso: devono essere voluti.

Per la bici non servono colossali investimenti in termini di risorse, non sono necessari. Ma due punti sono irrinunciabili: una visione strategica di insieme sul ruolo che si intende assegnare alla mobilità ciclistica e un dettaglio puntuale delle singole azioni da realizzare.

Visione ed azione. Sintesi e analisi: l’una e l’altra sorrette da competenza e costantemente monitorate.

Qui non è questione di risorse, di tecnicismi, ma innanzitutto di volontà politica. Se questa manca, o è debole, il cambiamento auspicato e pure annunciato non è destinato a realizzarsi.

E’ strategico definire gli obiettivi assegnati alla ciclabilità: risorsa della mobilità quotidiana o mezzo del loisir, del tempo libero? Questi obiettivi erano in larga misura incarnati in un Piano della Mobilità Ciclistica che, sul modello dei bike masterplan, avevamo insieme a Luigi Riccardi contribuito a costruire, in collaborazione con lo staff dell’assessore Croci. Ma il documento non ha mai visto la luce.

Dalla definizione degli obiettivi passano poi, con logica coerenza, le realizzazioni concrete.

Se si ritiene che la ciclabilità sia una  componente della mobilità quotidiana, con pari dignità rispetto ad altre, occorre pensare a una città che consenta una circolazione diffusa della bici in sicurezza su tutte le strade, con tutto ciò che da questo consegue in termini di dotazioni, strutture, servizi, facilites. Se viceversa la si considera un mezzo residuale, o una componente del tutto accessoria, allora ci si può anche accontentare di qualche manciata di chilometri di piste ciclabili spezzettate, poco invitanti e non molto altro.

Guardiamo ancora a quel che sta di fronte a noi.

Quante sono su questi temi le occasioni mancate, nella nostra città?

Si pensi alla Fiera di Rho: un colossale investimento economico, sostanzialmente ancora non raggiungibile in bici da Milano, che per giunta ha prodotto una frattura sul territorio, rendendo pericolosa la mobilità in bici per i cittadini dei paesi confinanti (Rho e Pero). O alla stazione Centrale di Milano, oggetto di un lungo e costoso intervento di restauro che non è stato in grado di concepire la stazione come luogo anche di interscambio tra bici e trasporto pubblico. O il tunnel di Porta Nuova, adiacente alla stazione Garibaldi, inaugurato un anno fa e inspiegabilmente vietato alle bici, costrette ad un’alternativa inesistente. O ancora la ztl che si sta realizzando in via Paolo Sarpi, che non prevede la transitabilità in bici nei due sensi (salvo che questa venga finalmente concessa come rimedio successivo alle vibrate proteste che sono state sollevate). E infine corso Buenos Aires, dove nella realizzazione di un intervento di riqualificazione non si è trovato il modo di favorire concretamente la ciclabilità, costringendo anche in questo caso i cittadini ad attivarsi con istanze, petizioni e proteste che spesso restano anche inascoltate.

Vorrei concludere dicendo che tutti i casi sopra citati (in un elenco che non ha alcuna pretesa di esaustività) non evidenziano problemi di fattibilità tecnica o di sostenibilità economica, ma rappresentano altrettanti esempi di una volontà politica mancante, di una committenza pubblica inadeguata, che non ha saputo fornire linee guida chiare e sufficientemente vincolanti nell’interesse della collettività.

Luigi Riccardi, fondatore di Ciclobby di cui ricorrono i due anni dalla scomparsa, ci esortava frequentemente ad operare con “pazienza e tenacia”, che erano quasi le sue parole d’ordine.

Ma vedendo l’inspiegabile lentezza con cui i temi della ciclabilità procedevano, Gigi citava spesso anche le parole di un famoso economista: “I tempi lunghi sono quelli in cui saremo tutti morti”.

Ecco, la svolta deve partire da qui.

Eugenio Galli (presidente Fiab CICLOBBY onlus)

 

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